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fenomenologica dell’arte interrogandosi sulle proprie radici, sulla valenza o meno della pro-
pria cultura.
Come ho avuto modo di esporre nell’introduzione al catalogo della VII Rassegna di Design,
l’Archimass Laboratorio avvia la propria indagine partendo da quanto scrive in I corpi e le
cose Enrico Bellone. Secondo Bellone il modo con cui veniamo a conoscenza del mondo e
come lo trascriviamo dipendono dalle “sensazioni che abbiamo nell’esplorare l’ambiente e
la descrizione di quest’ultimo, insieme alla folla di comportamenti che ciascuno esibisce per
adattarsi alla nicchia. Adattamento che si realizza grazie a processi che avvengono nei nostri
corpi e che, nella stragrande maggioranza dei casi, sfuggono completamente alla nostra con-
sapevolezza”.
Quest’ottica presuppone quindi una visione kantiana che individua, come parte essenziale la
conoscenza della casualità e delle relazioni spazio temporali: il che varrebbe ad ammettere
che la ricerca artistica, o meglio l’investigazione artistica, non segue un processo ordinato nel
suo sviluppo ma scaturisce da una somma di processi preordinati che procede senza nessun
fondamento epistemologico che non sia il risultato della “natura evolutiva e non intenzionale
dei manufatti”, come se questi ultimi fossero “ottusamente obbedienti alle nostre aspettati-
ve”. Il che è assolutamente inconcepibile.
L’opera d’arte di contro segue un procedimento metodologico. È di fatto un percorso logi-
co, è la risposta che si invera tra competenza ed esecuzione, è insomma il processo, secondo
quanto afferma Hjelmslev, che “viene ad esistere grazie al fatto che c’è un sistema sottostante
che lo genera e determina nel suo sviluppo possibile”. Un processo a cui presiedono delle
regole di base che assumono “il valore di un modello generativo (in senso chomskiano), ossia
di una “grammatica che genera la serie pressoché infinita” dei modelli inventivi.
Attraverso l’impiego “comune di un metodo deduttivo estrapolato non tanto dai codici delle
lingue naturali, quanto dai sistemi linguistici artificiali” (Menna), nasce l’opera d’arte.
In altre parole dall’intreccio tra cultura e storia. A questa istanza mi sembra vada ricondotto
il percorso creativo degli artisti-progettisti che si confrontano in questa iniziativa, e in altre
ispirate alle ricerche dell’Archimass e degli altri gruppi come l’Aleph e il gruppo Zero.
Altrimenti si rischierebbe di impantanarsi nel deserto chiassoso, plurale della condizione mo-
derna, di questo - come dice Baudelaire - paesaggio piovoso, dove gli spazi metropolitani sono
diventati luoghi del superfluo e dell’inutile, un accumulo di segni, un reticolo elettronico
dove l’individuo si smarrisce o si perde. Dove allora ricercare un porto franco, un ambito da
sottrarre all’uniformità globale del mondo in modo che la memoria individuale non si perda
insieme alla memoria collettiva nel “tentativo di ricomporre in un disegno unitario nel suono
di una parola o di un nome in cui le cose possano di nuovo” avere la pienezza come esisten-
za compiuta per l’uomo”? (Rella). Uno spazio beninteso sottratto a qualsiasi investimento
capitalistico, ma anche a qualsiasi ipotesi di restauro rigenerativo dei segni del passato.
Questo è l’ambito entro cui si sono mossi questi sperimentatori. Uno spazio - direi - dome-
stico, quotidiano che ruota intorno alla possibilità di rinnovare, con piccoli gesti, il mondo
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